Terra di Confine
L’arrivo dei coloni greci nella piana del Sele fu segnato da trasformazioni importanti destinate a ridisegnare il territorio di cui si erano impadroniti, compreso tra il Fiume Sele a nord e il promontorio di Agropoli a sud. Mentre sulla piattaforma di travertino in cui si era scelto di edificare la città, si tracciavano i primi assi stradali e si organizzavano gli spazi dividendoli in pubblici, privati e sacri, la necessità di gestire anche il territorio circostante, spinse i nuovi venuti a costruire in corrispondenza del punto più settentrionale del territorio da loro controllato, circa 9 km più distante, un grande santuario extraurbano. L’area era dominata dal Fiume Sele che con il suo passaggio non segnava solo l’inviolabilità dello spazio occupato, ma divideva due mondi culturali, quello greco di Posidonia da quello etrusco di Pontecagnano.
È in questa terra di confine, divisiva, ma anche luogo di incontro e di scambi con coloro che abitavano aldilà del fiume, che i greci fuoriusciti da Sibari, vollero porre un segno forte della loro presenza dedicando un santuario ad Hera Argiva, fondato secondo il mito da Giasone, leggendario capo della spedizione degli Argonauti.
La Scoperta del Santuario
La scoperta di questo importante santuario della Magna Grecia fu avvincente: le campagne avviate, con non poche difficoltà, nei primi anni ‘30 del 1900 da Paola Zancani Montuoro e Umberto Zanotti Bianco, riportarono alla luce non solo i resti delle strutture di culto, ma oltre 6000 oggetti votivi e un ciclo scultoreo di 40 lastre in pietra arenaria, metope alternate a triglifi, appartenenti al fregio del primo edificio di culto del santuario, un tempio dorico con peristasi di 6 x 12 colonne.
Le metope, intorno alle quali sarebbe nato il progetto architettonico del nuovo Museo Archeologico Nazionale di Paestum, dove furono esposte fin da subito nell’ambiente centrale destinato a ricordare la cella del tempio (fig. 4), raffigurano le imprese di Eracle (fig. 5) e le vicende di dèi ed eroi legati alla guerra di Troia (fig. 6). Lavorate da più squadre di artigiani locali, esse presentano in alcuni casi uno stile plastico, con le figure a rilievo, in altri una resa più disegnativa, meno ricca di dettagli. Del gruppo recuperato durante le campagne di scavo facevano parte anche elementi appena sbozzati. Tutti i blocchi dovevano essere in origine completati con l’applicazione di colore.
Verso il 500 a.C., in sostituzione del primo edificio di culto, fu eretto un monumentale tempio dorico con 8 colonne sui lati corti e 17 su quelli lunghi e furono costruiti due grandi altari. Di questo edificio si conservano, oltre al basamento, una serie di elementi architettonici esposti nella galleria inferiore del nuovo percorso di visita del museo: si tratta di capitelli, elementi della cornice e della gronda (sima) con gocciolatoi a teste di leone e di un gruppo di metope raffiguranti fanciulle riccamente vestite intente a danzare o a fuggire. Le figure, rappresentate in coppia su ciascuna lastra tranne che in un caso, sono state variamente interpretate come parte di un corteo, di una danza rituale in onore di Hera o come protagoniste di episodi tratti dal mito: l’inseguimento di Teti da parte di Peleo alla presenza delle Nereidi o quello di Teseo che rapisce Elena ancora fanciulla mettendo in fuga le sue compagne danzatrici sacre.
L’Edificio Quadrato
L’area sacra continuò ad essere frequentata anche in età lucana quando, intorno al 400 a.C., i nuovi fruitori del Santuario costruirono due spazi di accoglienza e un edificio di forma perfettamente quadrata costituito da un unico grande ambiente.
La scoperta di centinaia di pesi da telaio in terracotta, di frammenti di vasi legati alle cerimonie nuziali (lebetes gamikoi) o riconducibili all’ambiente domestico (oikos), come gli stampi per focacce o i contenitori per servire pietanze, suggerirono che l’edificio fosse frequentato da sole donne dedite al culto della dea. Ad Hera, raffigurata in trono con coppa e melagrana, era infatti dedicata anche una piccola statua in marmo recuperata durante le esplorazioni del 1962.
Il complesso di materiali rinvenuti in questo spazio al femminile contribuisce a richiamare la centralità del ruolo della donna all’interno della società lucana di Paestum in quanto sposa, madre e custode della casa e dei suoi beni. Nell’edificio, gruppi di fanciulle in età da matrimonio trascorrevano un periodo iniziatico impegnate in una serie di attività tipicamente legate al proprio ruolo, come la tessitura per realizzare stoffe preziose da offrire forse alla dea durante particolari celebrazioni.
L’area del Santuario continuò ad essere frequentata, seppure con minore intensità, anche in età romana fino all’abbandono avvenuto nel III-IV secolo d.C. a causa di ripetuti fenomeni di impaludamento.
Il Culto di Hera
Hera, moglie e sorella di Zeus, era invocata per la protezione dei raccolti, delle greggi, ma anche come divinità tutelare della giovinezza, del matrimonio, considerato come vincolo sacro all’origine della vita delle nascite. Essa sovrintendeva il ciclo produttivo come allegoria generale di quello naturale.
Centinaia di statuette in terracotta datate fin dal VI sec. a.C., rivenute nei pozzi sacri, in fosse o in strutture particolari scoperte nello spazio tra gli edifici di culto e gli altari, ritraggono la dea in maniera analoga agli esemplari rinvenuti nell’Heraion cittadino, seduta in trono, ammantata e con alto copricapo, mentre regge un bambino, un fiore di loto o un cavallino. Nel gruppo più consistente, rappresentato da numerose repliche datate a partire dalla fine del V sec. a.C., Hera regge nelle mani una coppa e un melagrana o un cesto di frutti.
Tra gli altri ex voto a lei donati durante le cerimonie religiose vi erano statuette di offerenti, frutti in terracotta, incensieri realizzati nella forma di busti di donne con il capo sormontato da un fiore, oggetti in bronzo, in osso e avorio, in metallo prezioso, questi ultimi soprattutto di ornamento personale. Vasi in ceramica impiegati per cucinare e servire pietanze, insieme a resti di ossa animali documentano, infine, i pasti rituali che si consumavano sul posto.
Il Museo Narrante
Lo sguardo di chi arriva nell’area archeologica è immediatamente attirato dalla presenza, al centro di una piana priva di strutture, di un unico edificio rurale, Masseria Procuiali, una casa colonica costruita negli anni ’30 del XX secolo e ristrutturata per accogliere il c.d. Museo Narrante.
La struttura espositiva, inaugurata nel 2001, si proponeva di accompagnare il visitatore alla conoscenza di ogni aspetto del Santuario, dagli edifici che popolavano l’area, ai rituali che vi si svolgevano, utilizzando principalmente istallazioni, filmati, ricostruzioni tridimensionali, effetti sonori e pannelli.
Chiuso dal 2011 per l’esondazione del vicino fiume, e passato ai Parchi archeologici di Paestum e Velia dopo la loro istituzione nel 2014, il Museo è al centro di un nuovo progetto di allestimento che si propone di restituirlo alla comunità in una veste completamente rinnovata.
IL MUSEO È ATTUALMENTE CHIUSO AL PUBBLICO.
I Parchi archeologici di Paestum e Velia sono un istituto del Ministero della Cultura dotato di autonomia speciale, iscritto dal 1998 nella lista del patrimonio mondiale UNESCO.